Valle Sacchetta Sacchettina

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visitata lo scorso 13 novembre

venerdì 1 aprile 2011

Rapporto Fao su pesca e acquacoltura. La parola all'esperto (da slowfish.it

Intervista a Silvio Greco, biologo marino e presidente del Comitato scientifico di Slow Fish, sui dati dell'ultimo rapporto Fao sulla pesca e l'acquacoltura (Sofia 2010) pubblicato settimana scorsa.


Secondo il rapporto della FAO l’acquacoltura è in forte crescita e presto supererà per quantità prodotte il pesce di cattura. Secondo il pensare comune sarebbe un’ottima alternativa alla pesca, per evitare l’estinzione di molte specie. E’ davvero così? C’è un’acquacoltura buona e una cattiva?

La produzione da acquacoltura potrà superare in termini numerici e tonnellate le quantità di pesce pescato senza mai eguagliarlo in termini di specie. Le specie allevate, infatti, sono pochissime, circa sei di pesce, due di crostacei e qualche mollusco mentre le specie di pesci commerciali e commestibili sono circa 500. Quindi è chiaro che un sorpasso sarà possibile solo in termini di produzione. L’acquacoltura normalmente alleva pesci nutrendoli con farine di altri pesci selvatici, quindi ci si domanda se sia etico e sostenibile ammazzare 22kg di pesce selvatico per ottenere un kg di pesce allevato.

Quote pesca. Ci può spiegare in breve cosa sono, e se veramente sono efficaci per tutelare gli ecosistemi marini?

Si tratta di un sistema che, relativamente ad ogni specie, di fatto individua la quantità di pesce che ogni singolo Paese può pescare. Ovviamente il calcolo viene fatto in modo che il prelievo totale mantenga l’esistenza delle specie. Questo sistema di quote, molto usato nei mari del nord, si è rivelato fallimentare rispetto ad alcune specie, quali il merluzzo. Al momento la comunità scientifica si chiede se il sistema delle quote sia significativo. Ad esempio, nei mari del nord ci sono alcuni stock di pesce, come le aringhe e altre 5-6 specie e una grande quantità di individui rispetto a queste specie. Quindi è chiaro che la quota in qualche modo potrebbe avere un senso. Ma in un ambiente mediterraneo, in cui c’è una pesca multispecifica, in cui cioè ci sono numerosissime specie pescate con pochissimi individui, è chiaro che il sistema delle quote ha delle lacune. La comunità scientifica internazionale sta cercando nuovi modelli di gestione che siano sostenibili, cioè che oltre alla quota si preoccupino della biologia riproduttiva delle specie.

Il rapporto sottolinea il grave problema della pesca illegale. La crescente richiesta sul mercato di prodotti ittici non fa che incrementare questo fenomeno. Ci sono progetti efficaci per combatterla? La Fao ribadisce la necessità di dar vita al “Global Record”, un registro mondiale delle imbarcazioni impiegate nella pesca. Servirà?

Il problema della pesca illegale è planetario, e si parla di pesca illegale e incontrollata (Illegal, unregulated and unreported fishing – IUU). Il consumo di pesce nel nostro pianeta è passato da una media pro capite di 9 kg ai 24 attuali. Una tale richiesta fa si che si inneschi un meccanismo di illegalità. Illegalità che tra l’altro è di varia natura perchè quando si parla di pesca illegale si intendono ad esempio gli animali sotto taglia pescati da imbarcazioni regolari, ma anche la pesca di individui in ambienti vietati, quali ad esempio la fascia costiera o le aree protette. C’è un problema di illegalità diffusa che attualmente rappresenta oltre il 60% del prodotto immesso sul mercato, come denunciato dal Comitato per la Pesca della Fao (COFI). È chiaro che l’illegalità si può smantellare introducendo strumenti di controllo quali ad esempio il registro mondiale delle imbarcazioni e del pescato, che creano un meccanismo di tracciabilità del prodotto che arriva alle nostre tavole e può essere usato per combattere l’illegalità. Però è chiaro che è necessaria una perdita di sovranità nazionale, serve che tutti gli Stati si rendano conto che devono collaborare.

La Fao punta il dito anche sull’enorme spreco della pesca “accidentale”. Che cosa è? E come si può combatterla?

Si parla di bycatch, o pesca accidentale, quando per pescare un determinato organismo si coinvolgono altre specie non previste. Il problema della pesca accidentale ha interessato nel corso degli anni i cetacei e i mammiferi marini, come i delfini. In alcune aree le reti per pescare il pesce spada sono dotate di maglie particolari che bloccano i delfini, uccidendoli. Il problema del bycatch si risolve preparando attrezzi di pesca tipo longline e palangari che siano sempre più selettivi, indirizzati a pescare solo ed esclusivamente la specie target. Questo è l’unico sistema per ridurre il bycatch.

Il rapporto riconosce alla pesca su piccola scala un ruolo primario in quanto a sostenibilità e tutela degli ecosistemi. Le comunità di pescatori possono essere davvero i guardiani dell’ambiente marino e costiero?

Assolutamente si, perchè è evidente che i pescatori della piccola pesca sono quelli che vivono giornalmente l’ecosistema marino costiero, hanno una piena conoscenza delle specie presenti e del numero di individui. Però è chiaro che serve un intervento da parte dello stato. Ad esempio prendiamo il divieto della pesca dei bianchetti da parte dell’Unione Europea. È evidente che non possono essere i pescatori da soli a incaricarsi della protezione di questa specie, ma è necessario un intervento diretto delle autorità, per rendere efficace la protezione degli ecosistemi.

La Fao sottolinea i benefici nutrizionali del pesce, ma allo stesso tempo parla delle sostanze contaminanti presenti in molti esemplari. Quindi questo significa che dobbiamo limitarne il consumo? E quali sono i pesci che possiamo mangiare senza danneggiare l’ecosistema e la nostra salute?

Noi abbiamo un problema di contaminazione degli ecosistemi che diventa anche un problema di contaminazione degli organismi. Ad esempio, un animale che vive molti decenni, quale ad esempio il tonno o il pesce spada, ha la possibilità di accumulare contaminanti attraverso un processo che si chiama biomagnificazione, quindi è chiaro che si debba in qualche modo favorire il consumo di pesce a ciclo di vita breve, quale il pesce azzurro, cioè quei pesci che non fanno in tempo a contaminarsi. Dobbiamo pretendere che ci sia una migliore qualità degli ecosistemi e un mantenimento degli ecosistemi naturali. Ci sono tutta una serie di pesci attraverso il cui consumo si riduce l’impatto ambientale. Sulle tavole degli italiani troviamo solo 5-6 specie, 10 al massimo nelle famiglie più attente, e sempre i cosiddetti pesci bistecca come il pesce spada o il tonno, rispetto alle 300 specie commestibili presenti in Italia. Quindi è chiaro che attraverso i nostri consumi influiamo sugli ecosistemi.

Ultima domanda. «Tra 40 anni oceani senza pesci», questo l’allarme lanciato tempo fa da Pavan Sukhdev, del Programma ambientale dell’Onu. Che cosa ne pensa, riusciremo a salvare i nostri mari e chi deve agire?

La preoccupazione è elevata perchè il prelievo delle risorse e l’inquinamento possono causare se non l’esaurimento di tutte le specie, sicuramente la scomparsa di alcune. Chi deve intervenire? Dobbiamo intervenire tutti. La Fao ha questa grossa responsabilità, è uno dei pochi organismi internazionali che ha un Fisheries Committee dove partecipano quasi tutti i Paesi del pianeta. È chiaro che si può intervenire solo tramite una perdita di sovranità popolare. Noi dobbiamo fare passare il concetto che le risorse rinnovabili del mare appartengono a tutti e quindi nell’ottica di un bene comune devono essere protette da tutti. Ogni Paese deve perdere un po’ di sovranità popolare a favore di un ente terzo che può essere la Fao. È necessario lo sforzo di tutti, dei governi ma anche dei consumatori, che non devono chiedere sempre gli stessi pesci e prestare maggiore attenzione a ciò che acquistano.

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